di Luca Capponi
Ci sono fili invisibili che attraversano le generazioni e finiscono per intrecciare i destini. Quello di Daniele Felli, 40 anni, carrozziere friulano di Savorgnano del Torre (Udine), è uno di quei fili tesi tra il nordest e il cuore dell’Appennino, tra due terre ferite e testarde: il Friuli del ’76 e l’Arquata del 2016.
Figlio di un militare romano arrivato in Friuli poco prima del terremoto, Daniele è cresciuto tra le montagne ricostruite, respirando l’idea che dalle macerie si possa rinascere.
«Io sono nato dove la ricostruzione è stata un esempio per l’Italia intera – racconta -. E vedere un territorio come quello di Arquata arrancare ancora dopo nove anni, per me è inaccettabile».
La sua storia inizia con una perdita e un ritorno. Nel 2020 muore la nonna Lucia Funari, nata nel 1924 a Pretare, l’ultima di sette figli di una famiglia di pastori che pratica la transumanza tra i Sibillini e le campagne romane. Una vita rurale, fatta di antica pastorizia che, inevitabilmente, con l’avvento del boom economico va incontro ad un declino inesorabile, fatto di spopolamento e abbandono.
«Mio nonno lavorava alle ferrovie di Roma e tramite un suo collega di Illica (frazione di Accumoli anch’essa devastata dal terremoto, ndr) conobbe mia nonna. Da lì il trasferimento a Tivoli e l’addio a queste terre».
Nel 2022, spinto dal desiderio di fare vita di montagna e dal richiamo delle radici, Daniele decide di riscoprire i terreni di famiglia. Con le app catastali dell’Agenzia delle Entrate individua le particelle: «Terreni abbandonati dal 1972, proprio sotto al Monte Vettore. Un tempo erano prati e pascoli, ora era tutto sommerso da rovi e pietre».
Carica l’auto di motoseghe e decespugliatori e parte per Pretare, 65o chilometri andata, altrettanti al ritorno. Dietro la piccola cappellina di famiglia — la cappellina Funari, dedicata a Santa Gemma, che sorge sopra a quella che era una chiesa medievale — scorge un rudere di pietra che lo incuriosisce. «All’inizio pensavo fosse una stalla o un deposito, poi ho capito che era qualcosa di diverso. Mi si alzava davanti una sorta di muro antico di 3-4 metri».
Dopo le prime ricerche, con l’aiuto di don Elio Nevigari della Diocesi di Ascoli, scopre che quell’edificio non è un qualunque resto rurale sommerso dai rovi: è una delle sette torri di avvistamento costruite nel Quattrocento su ordine del Papa per difendere la Rocca di Arquata, la più alta e remota, nata lungo una mulattiera millenaria che collegava le valli.
«Faceva da dogana su questo percorso, perché il tutto nasce su una mulattiera che mi è stato detto avere più di duemila anni – continua Daniele -. Era una strada importante di passaggio, di commercio, che ho riscoperto in parte anche con l’aiuto dei ragazzi di Arquata Potest. Diciamo che qui nacque questa torre-dogana ed era l’unica fra queste sette torrette che aveva anche l’osteria per i viandanti e il dormitorio, nonché la posta dei cavalli, quindi c’era un complesso abbastanza importante».
Il ritrovamento lo costringe a confrontarsi con un’altra montagna, quella della burocrazia. Nonostante un foglio pieno di idee, venti in tutto, «tutte ecocompatibili, niente cemento, solo proposte per dare vita al territorio». Ma la risposta, racconta, è sempre la stessa: non si può fare. «La mia ragazza mi disse: “Ma in che situazione ci siamo andati a cacciare?”», ricorda.
È dal Parco dei Sibillini che arriva un segnale diverso: più apertura, più ascolto. Con la Soprintendenza ottiene un documento ufficiale che attesta l’assenza di vincoli sul rudere. È il via libera che aspetta.
Da quel momento, Daniele inizia a tornare sempre più spesso a Santa Gemma. Ma il dispendio di energia ed economico è notevole, nonostante sia abile ad arrangiarsi, tra furgoni, B&B e tanta fatica. Per questo a un certo punto decide di costruire una piccola casetta in legno per poter restare sul posto e continuare, con mezzi propri, a ripulire e conservare la torre. Il suo sogno è ben nitido: «Vorrei creare una tappa per i viandanti. Un piccolo glamping, tre o quattro casette, un chiosco. Non voglio un ristorante per lucrare: voglio un posto dove chi passa possa fermarsi, respirare, ricordare».
Il progetto guarda ai tanti cammini che attraversano la zona — il Cammino delle Terre Mutate, l’E1 europeo, l’Anello di Arquata — ma anche a un’idea più profonda di rinascita.
«Io sono figlio del terremoto del Friuli», ripete. «Lì abbiamo ricostruito tutto, con le nostre mani. Ora vorrei che Pretare, e Santa Gemma, tornassero a vivere. È il mio modo di restituire qualcosa».
Sul suo profilo social, tra le foto del Vettore e le pietre antiche, campeggia una scritta: “Il Friuli ringrazia e non dimentica.”
Forse è proprio questo il senso del suo viaggio: ricordare e non dimenticare, unire due terre attraverso la memoria, il sacrificio e il lavoro, riportare vita dove il tempo e le scosse hanno lasciato solo silenzio. E, nel farlo, dimostrare che la rinascita non è solo un fatto di soldi o progetti, ma di radici e di cuore.
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