Anche il comandante Piccioni in un libro sul brigantaggio legittimista fra Marche e Abruzzo

ASCOLI - L’opera di riscatto e rivalutazione di questo personaggio portata avanti dal pronipote Luigi Piccioni passa anche da questo saggio scritto sulla vita del presunto brigante, che vero brigante non fu mai
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di Walter Luzi

Nel ritratto dietro il maggiore Giovanni Piccioni. Davanti i tre figli: da sinistra Gregorio, Leopoldo, Giovanbattista.

Il riscatto del brigante Piccioni. La leggenda del malfattore in agguato nel grande albero cavo lungo la vecchia via Salaria per derubare i viaggiatori di passaggio, subisce un altro duro colpo. Il comandante Giovanni Piccioni ha infatti trovato posto nella trilogia di personaggi che più hanno caratterizzato, nell’ascolano e nel teramano, la Resistenza alle truppe piemontesi dal 1860 in poi.

Merito dello storico Angelo Massimo Pompei che ha raccontato in libro la fase storica più critica dell’Unità d’Italia, rivisitando il fenomeno del brigantaggio legittimista di quegli anni sorto tutto intorno all’ultimo baluardo borbonico a cadere nel vicino Abruzzo: la roccaforte di Civitella del Tronto. E lo fa attingendo a documenti ufficiali, e alle testimonianze dei discendenti diretti di tre grandi protagonisti di quegli eventi. Raffaele Tiscar, maggiore dell’esercito borbonico e vicecomandante della guarnigione della rocca di Civitella. Bernardo Stramenga, nativo della vicina Faraone di Sant’Egidio alla Vibrata, analfabeta, ma valoroso “capitano” di una vera e propria unità di guerriglia in contatto diretto con l’ex sovrano Francesco II° di Borbone.

E, come si diceva, Giovanni Piccioni, nato a San Gregorio di Acquasanta, comandante del Battaglione pontificio di volontari, amato e stimato dalla sua gente come Priore del comune di Monte Calvo.

 

Delle storie dei loro trisavoli hanno scritto i rispettivi pronipoti: Pietro Giorgio Tiscar, professore universitario a Teramo, Giovanni Stramenga, avvocato a Pescara, e Luigi Piccioni, storico farmacista di Valle Castellana. Con preparazione, con passione civile che va ben oltre il semplice affetto di congiunti verso avi che hanno saputo lasciare un segno nella Storia. «È stato un onore contribuire alla stesura di questa opera – ci dice quest’ultimo – perché rappresenta un’altra bella tappa nel recupero e riabilitazione della figura del comandante Giovanni Piccioni, mio avo. Un percorso che ci vede impegnati con la nostra famiglia da sempre, ma che ha tratto notevole impulso dopo la pubblicazione, cinque anni fa, della sua vera storia proprio sul vostro giornale».

 

Le promesse garibaldine, presto tradite, di dare le terre ai contadini che le coltivavano; la continuità, manifesta e impopolare, del Regno di Sardegna con quello nuovo, nascente, d’Italia, che prometteva emancipazione e progresso mai arrivati, l’ostilità verso un esercito, considerato oppressore ed invasore, l’estrema povertà nel centro-sud, origineranno quella che ancora oggi, dopo centocinquant’anni, è ancora aperta come la Questione Meridionale.

Luigi Piccioni. Pronipote di Giovanbattista

Ma rispetto alle bande filoborboniche e antiunitarie, la levatura morale e il carisma indiscusso di Giovanni Piccioni, denotano altre valenze. «Le sue mani non si sono mai sporcate di sangue – ricorda il pronipote Luigi – soldato di santa madre Chiesa amava definirsi. Cresciuto fin da bambino alla scuola virtuosa dello zio prete, don Marco Piccioni, parroco a Castel Trosino, con le sue sei compagnie di combattenti, reclutati in tutti comuni montani limitrofi, si oppose, da ultimo, alle truppe piemontesi comandate dallo spietato generale Ferdinando Augusto Pinelli, animato, soprattutto, da una grande fede.

Lui e i suoi uomini combatterono, oltre che per salvaguardare il potere temporale papalino, per difendere la loro terra, le proprie famiglie, le vecchie tradizioni saldamente ancorate alla religione».

 

È la storia mai raccontata del brigantaggio legittimista, che con le sue azioni di guerriglia cercò, invano, di allentare la morsa del lungo assedio alla fortezza di Civitella, ultimo baluardo del Regno delle due Sicilie. Capitolerà il 21 marzo 1861, quattro giorni dopo la proclamazione ufficiale della nascita del Regno d’Italia. La sanguinosa e violenta repressione del brigantaggio fra Abruzzo e Marche si trascinerà, invece fino al 1866, fra massacri di civili inermi accusati di collaborazionismo con i ribelli, abitati dati alle fiamme e infami delazioni. Grosse taglie in denaro furono offerte, infatti, a chi permettesse la cattura dei briganti alla macchia. Bernardo Stramenga fu l’unico dei più grandi capibanda legittimisti italiani a sfuggire all’uccisione e alla cattura. Riparato avventurosamente in Francia riuscì a morire di vecchiaia lì, esule, ma da uomo libero come aveva sempre vissuto e combattuto.

 

Delle migliaia di civili morti ammazzati dalle truppe sabaude scompariranno le tracce persino nei registri anagrafici parrocchiali. Una legge appositamente promulgata, la Pica del 15 agosto 1863, derogando agli articoli garantisti dello Statuto Albertino, istituisce il reato di brigantaggio, delegando ai tribunali militari ogni forma di repressione e legittimando così, di fatto, processi sommari, esecuzioni sul posto ed ogni crimine commesso dall’esercito piemontese ai danni anche della popolazione.

L’albero “del Piccioni”, alle porte di Ascoli

Conoscenze che aiutano a comprendere meglio il ruolo e il sacrificio di personaggi diventati a volte solo leggenda folkloristica, perché spesso descritti come macchiette, o poco più. «L’albero d’ P’cciò lungo la Salaria – spiega ancora Luigi Piccioni – è lì a perpetuare la figura del nonno di mio nonno anche se, storicamente, non c’entra nulla con l’eroe sanfedista dei moti risorgimentali del 1830/31, 1849/49 e 1860/61. Così come le narrazioni che lo vogliono dormire con la sua carabina sempre accanto, o mangiare solo carne cruda, o, addirittura, che il suo cavallo sputasse fiamme. L’unica verità è che per oltre cinquant’anni ha servito, disinteressatamente, il papato insieme a tre dei suoi nove figli. Mai smarrendo la fede, la rettitudine e l’etica profonda che lo hanno sempre contraddistinto».

 

Tradito da un delatore il comandante Piccioni viene catturato a San Benedetto nel novembre del 1863. A settant’anni, dopo un processo-farsa, lo rinchiudono in una cella della Fortezza Malatesta di Ascoli dove morirà cinque anni dopo, il 20 marzo 1868. La piazza di San Gregorio di Acquasanta, grazie all’impegno dei suoi discendenti, porta oggi il suo nome.


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