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“Restate a casa”, giorno uno:
scenari da film, ma è tutto vero
Il Piceno all’ennesima prova

EMERGENZA CORONAVIRUS - A 24 ore dalle misure restrittive che hanno cambiato la vita di tutti la sensazione è di essere finiti in una pellicola di genere simil-catastrofico. Piazza del Popolo, il Meletti, il Duomo: laddove prima c'era vita ora sembra tutto immobile anche nel capoluogo Ascoli
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di Luca Capponi 

I paragoni cinefili si sprecano. In effetti, se non è una situazione da film poco ci manca. Quasi ventiquattr’ore dopo il momento che ha cambiato la vita di tutti, cioè l’annuncio del presidente del consiglio Conte sui nuovi provvedimenti in materia di Coronavirus estesi all’Italia intera, la sensazione di essere finiti in una pellicola di genere simil-catastrofico è forte. Isolamento, quarantena, contagio, vaccino, mascherina, tampone, epidemia: termini che fino solo a un mese fa erano cosa rara nel vocabolario comune e che oggi sono all’ordine del giorno, come un maledetto mantra.

Piazza Arringo

E nonostante sia ancora tra le pochissime zone della penisola senza contagiati, insieme alle province di Isernia e Crotone (qualcosa vorrà pur dire, nel bene o nel male), anche il Piceno si adegua alle misure antivirus, ormai note e stranote. Prima tra tutte, il monito che imperversa ovunque: restate a casa. Allora capita davvero di aggirarsi tra scenari surreali (altro termine che in questo periodo viene utilizzato con generosità); laddove prima c’era vita, ora sembra tutto immobile, dal battito tendente allo zero. Anche nel capoluogo Ascoli: un’eterea piazza del Popolo, il Duomo senza funzioni, piazza Arringo e le sue fontane solitarie, le attività commerciali nel limbo, il Caffè Meletti come mai lo si era visto, tra nastri per la distanza di sicurezza e serrande abbassate alle 18, luoghi destinati allo sport deserti, scuole chiuse. Eppure il Piceno di problemi ne ha passati tanti, e tanti ancora li porta ancora appiccicati addosso. Zona rossa, per continuare con le terminologie abusate, è una parola che qui ben si conosce e che si trascina dietro fantasmi e realtà infelici. Ci mancava il virus, davvero. Un’ennesima prova da passare, l’ennesima tempra al carattere.

Prudenza tanta dunque, almeno quanto lo spaesamento, il vuoto, i dubbi che forse con un pizzico di prudenza in più tutto questo si sarebbe potuto evitare, nell’Italia dei furbetti che alle mezze misure è allergica per vocazione, contraddizione vivente a forma di stivale. E invece adesso la situazione è kafkiana, quasi come l’assistere alla fuga dei padani dalla loro amata “patria” alla volta del bistrattato sud: scappare una zona rossa per finire, senza saperlo, in un’altra zona rossa. Nel Bel Paese dei paradossi succede.

Proprio come nei film. Ci sarebbe da augurarselo, a questo punto. Perché alla fine il copione quasi sempre porta il finale adeguato, con la buriana che passa alla fine della “nottata”. Non senza l’insegnamento di rito, l’auspicio: quello, severo, è il forzato isolamento restituisca qualcosa in termini di calore ad un genere umano che all’isolamento si è inconsciamente votato da tempo attraverso l’abuso della virtualità, pure quando in gruppo, pure quando in coppia o in famiglia. La speranza è che il Coronavirus possa servire a qualcosa non tanto in tal senso, o almeno non solo, quanto a far sì che nessuno trascuri mai più baci e abbracci. Parole e carezze. Quelle vere.

 

 


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