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Il paesaggio culturale della Laga: a colloquio con Domenico Cornacchia

DOPO aver analizzato la situazione dei residenti della Laga nelle tante frazioni disperse sui poggi di questo bellissimo territorio appenninico - valligiani coraggiosi che hanno scelto la “restanza” - nonostante le obiettive difficoltà, ora analizzeremo un diverso aspetto del problema, quello culturale. Ci aiuterà un gradito ospite, Domenico Cornacchia, autore di “Resto qui”, un volume di successo recentemente tradotto in inglese, e attivo promotore del “suo” territorio
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Panorama da Alvi di Crognaleto (foto FederTrek)

 

di Gabriele Vecchioni 

 

I Monti della Laga sono situati a cavallo delle regioni Marche, Abruzzo e Lazio, lontani dalle principali e più battute “vie turistiche” e solo relativamente valorizzati sotto tale aspetto. L’isolamento ha permesso di mantenere pressoché inalterata un’area relativamente vasta, ricca dal punto di vista naturalistico (soprattutto vegetazionale e idrogeologico): un aspetto importante, in questo prolungato periodo di crisi ecologica, caratterizzato dal cedimento della società civile e dalla distruzione delle risorse naturali del nostro pianeta più che dalla loro conservazione.

 

Si tratta di un’area interregionale, (ri)perimetrata all’interno dei confini di un Parco Nazionale, ben conosciuta dagli appassionati di escursionismo e interessante anche sotto l’aspetto socio-antropologico. Ne parliamo con l’amico Domenico Cornacchia, autore di un saggio affermato, del quale abbiamo già trattato (leggi qui l’intervista all’autore).

 

Santuario della Madonna della Laga a Padula (foto G. Vecchioni)

 

Prima di affrontare l’argomento della nostra “chiacchierata” una premessa. La Laga è un gruppo montuoso con diverse cime oltre i 2000 m ma è, sostanzialmente, un gruppo nel quale è possibile un approccio “orizzontale” (traversate, anelli, dislivelli non-impossibili), dove è possibile apprezzare quella che Pietro Lacasella ha definito, in un recentissimo intervento in rete, «la complessità paesaggistica dei territori montani, dove la pluralità naturale si fonde alla pluralità antropica». L’intervento si concludeva con una frase, un’idea che forse riprenderemo nel corso del colloquio: «Le montagne riflettono, e nel riflettere amplificano, la pluralità del mondo, invitando a diffidare da chi vende soluzioni semplici a problemi estremamente articolati. Viaggiare in montagna è un antidoto alla demagogia».

 

Cosa ne pensi? «Sì. C’è bisogno di cultura, di conoscenza del territorio, di botteghe artigiane, di produzioni tipiche locali e di tanti altri aspetti che vanno controcorrente rispetto all’uniformizzazione socio-culturale dei paesi. Un aspetto, quest’ultimo, che si sta vivendo sempre di più anche nelle città, dove le peculiarità, le tipicità stanno lasciando spazio, inesorabilmente, alla standardizzazione dei territori.

 

Quando si parla di paesi, nella stragrande maggioranza dei casi – e questo vale anche per la Laga – si parla del patrimonio materiale, di abitazioni, chiese, scuole e altro. Quello che però è davvero importante è il patrimonio immateriale, quello fatto di persone e comunità. Costruire o ristrutturare beni materiali non è sufficiente, serve costruire o ricostruire comunità, anime.

 

A Castel Trosino (foto di Domenico Cornacchia)

 

Quando ci si riferisce alla Laga, viene spontaneo pensare a “un mare di verde”, ai boschi che arrivano fin quasi alle case, ai torrenti e alle cascate (non dimentichiamo l’etimologia dell’oronimo!), alla natura, insomma… ma la Laga non è solo quello. Ci sono borghi, case isolate, chiese, orti: è uno spazio antropizzato e la fitta rete di piste e sentieri è il segnale di una frequentazione assidua (oggi, forse minore di qualche tempo fa ma mai venuta meno). Dove non ci sono segni evidenti della presenza dell’uomo, ci sono i toponimi a ricordarcela.

 

Il fenomeno dell’abbandono dei paesi della Laga è stato l’argomento di un recente articolo (leggilo qui). L’abbandono porta al decadimento e alla rovina materiale del patrimonio ma la memoria, paradossalmente, rimane, come ha scritto l’antropologo Vito Teti ne Il senso dei luoghi (2004): “Contro ogni apparenza, i luoghi abbandonati non muo­io­no mai. Si solidificano nella dimensione della memoria di coloro che vi abitavano, fino a costituire un irriducibile elemento di identità”. Quello che resta, però, sono edifici abbandonati, strutture (case, chiese, stalle, fontanili) non più utilizzate: un patrimonio immobiliare forse di non grande valenza architettonica ma, certamente, con un grande valore storico e identitario».

 

Santa Rufina di Valle Castellana, a due passi da Castel Trosino (foto D. Cornacchia)

 

«I paesi piano piano muoiono perché non c’è un’offerta adeguata di servizi di cittadinanza essenziali: scuole, farmacie, strade, trasporti efficienti, telefonia e connessioni. Quei pochi abitanti rimasti nei paesi non sono sufficienti a contrastare questo declino demografico e territoriale. Inoltre, a seguito di eventi sismici ripetuti negli ultimi 15 anni, questo fenomeno è aumentato esponenzialmente. Le zone di cui stiamo parlando non possono essere “vissute” come nei secoli scorsi, sarebbe impensabile e non porterebbe nessun risultato. Bisogna aprirsi al futuro mantenendo, però, un forte legame con il passato, con le tradizioni, con il bello che queste aree possono regalare. Non sono solo terre di pastori, boscaioli e contadini, come sono state etichettate per secoli, ma sono anche terre di artisti, scultori, scrittori, terre di cibi e tradizioni, terre di bellezze paesaggistiche, forse più belle di altre zone molto più famose (e valorizzate). I paesi collinari e montani devono essere appendici importanti delle città, in simbiosi con esse, in modo che gli uni e gli altri possano trarne beneficio, con una crescita armonica e variegata».

 

È vero, l’Italia non è fatta solo di città d’arte e di monumenti grandiosi ma anche di centri minori, magari isolati, case, torri di controllo, chiesette, architravi incisi o scolpiti, memoria della gente che ha vissuto in quei posti. Serve un piano di salvataggio, di recupero di tutto quello che si può recuperare. Prima abbiamo citato una frase di Teti; è vero che i luoghi abbandonati “non muoiono mai” ma trascurare un territorio, permettere la scomparsa di un capitale materiale (per crolli o furti) significa anche perdere l’identità culturale del posto.

 

«Il ripopolamento di questi paesi e delle aree montane è possibile, ma presuppone progetti e investimenti importanti e mirati, c’è bisogno di diverse visioni rispetto al passato, di un grande impegno politico e civile, di una visione unitaria del territorio. Questo non significa, però, slogan banali, convegni sterili, iniziative effimere o progettazioni senza coscienza, ma azioni concrete, nel rispetto del territorio e delle sue caratteristiche peculiari. I paesi hanno bisogno di uno sguardo non superficiale, ma accurato e prolungato nel tempo. Ri-abitare significa ricostruire comunità attive, avere una progettualità innovativa per una visione futuristica, fornire una forte motivazione a chi vuole restare o chi vuole vivere in queste aree, magari con importanti agevolazioni finalizzate a questo scopo.

 

La chiesetta di Sant’Angelo a Riano di Rocca Santa Maria (foto R. Gualandri)

 

Dopo la natura e la storia, il terzo punto sul quale soffermarci è il paesaggio. Ribadire che l’Italia è “la terra dei paesaggi” è forse pleonastico ma nel caso della Laga occorre farlo: i suoi straordinari paesaggi sono fuori dell’ordinario. Ogni centro ha una veduta diversa, ogni luogo ha un’immagine da ricordare.  Philippe Daverio, in Che cos’è la bellezza (2022) ha scritto che “Noi non abbiamo natura in Italia, tutta la nostra natura è lavorata” ma tra i paesaggi antropizzati della Laga siamo lontani dalla quella che lui definisce «disarmonia del caos urbanistico».

 

I partecipanti all’evento culturale a Fràttoli di Crognaleto (foto D. Cornacchia)

 

Tempo fa, in un articolo sulle chiese rurali delle nostre zone, costruite in posizioni spesso panoramiche, inserite in uno splendido contesto ap­penninico, riportai le parole di un giornalista, Luca Villoresi, che aveva scritto di «certe chiesette semiabbandonate circonfuse da un fascino che risale all’anno Mille; […] i piccoli cimiteri, eredi di una storia e di una suggestione ancora direttamente collegata alla natura circo­stante. Gli antichi non avevano la nostra idea del paesaggio. Ma, attenti agli spiriti connaturati alle piante, alle rocce, allo scorrere dell’acqua e al volo degli uccelli, individuavano in certi luoghi – che oggi definiamo panoramici – una sintesi, una concen­trazione di forze. Lì erano sorti templi, altari, aree sacre, poi riciclati dalle chiese e dai ci­miteri cristiani». Sono parole che fanno pensare alla scelta di una “immersione” nella natura circostante senza modificare i ca­ratteri fondamentali del paesaggio, dove il “costruito” si fonde alla perfezione con il “naturale”.

 

«Questi piccoli paesi della Laga, con le loro città di riferimento si trovano in un comprensorio naturalistico unico nel suo genere. Basti pensare che mare e montagna si trovano a pochissima distanza, e, come nel caso dei Monti Gemelli, si può addirittura sciare guardando il mare. Sono presenti castelli, roccaforti, gole, calanchi, vette che superano i duemila metri di altezza, una flora e una fauna vastissima. Ad esempio, l’ultima rassegna del Festival Culturale dei Borgi Rurali della Laga ha messo in luce tantissime di queste bellezze e tipicità. La valorizzazione delle aree parte dalle amministrazioni e dai cittadini che vivono attivamente tutti i giorni questi territori. In Italia ci sono modelli di aree collinari e montane che operano in modo eccelso, non bisogna ideare nulla di straordinario, basterebbe prendere esempio e lavorare in modo concreto.

 

Blaise Pascal, matematico prima e filosofo poi, qualificò l’uomo come “canna pensante”, volendo sottolinearne l’implicita fragilità costituzionale nel contesto naturale; nello stesso tempo, tendeva a privilegiarne l’intelligenza creativa nei confronti del mondo animale e vegetale.  Già nel sec. XVII era stata messo in evidenza l’impatto che l’azione dell’uomo poteva avere sulla natura e oggi i troppi approcci negativi verso l’ambiente fanno dubitare sulla correttezza delle sue azioni.

 

Perché queste parole? Per ricordare che la natura e, con essa, il paesaggio sono “opere d’arte” e vanno salvaguardate come tali; a differenza delle opere d’arte propriamente dette, chiuse e protette in musei, chiese e case, i luoghi della natura sono più facilmente raggiungibili e fruibili da parte di chiunque se ne interessi, che andrebbe facilitato in questa sua ricerca.

 

È comprensibile che il nostro Paese sia inguaribilmente affascinato dai “resti” del passato (è meno comprensibile che vengano accettate anche “brutture” del presente), ma è inconcepibile che venga quasi totalmente ignorata un’altra sua ricchezza (la natura e il paesaggio, anche culturale), ben più importante per il benessere concreto della gente».

 

SE VI SIETE PERSI QUALCHE REPORTAGE DI GABRIELE VECCHIONI…..

 

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