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Trabocchi e bilance, testimonianze della civiltà della pesca nell’Adriatico

LA COSTA meridionale dell’Abruzzo è conosciuta come la “Costa dei trabocchi” per la presenza di “strane” macchina da pesca. In questo articolo si ripercorrono brevemente la storia e la funzionalità di queste strutture presenti, fino a qualche decennio fa, anche sul molo di San Benedetto (li velangie, le bilance). Alcune di queste strutture sono diventate location turistiche, frequentati ristoranti. Il focus è sull’aspetto storico (e geografico) e su quello sociale
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di Gabriele Vecchioni

(le foto dei trabocchi sono di Mario Granatiero, le foto delle bilance sambenedettesi di Bum San Benedetto, 2015)

 

«All’estrema punta del promontorio destro, sopra un gruppo di scogli, si protendeva un Trabocco [è quello di Capo Turchino, in località Portelle di San Vito Chietino, NdA], una strana macchina da pesca, tutta composta di tavole e travi, simile a un ragno colossale… (G. D’Annunzio, 1894)».

Un po’ lontana dal territorio piceno ma meritevole di una visita non frettolosa è la cosiddetta Costa dei trabocchi, che si trova in provincia di Chieti, lungo il litorale abruzzese che va da Francavilla al mare fino alla molisana San Salvo; la maggiore concentrazione di questi manufatti si ha tra Ortona a Casalbordino.

Il trabocco (lu travocche in dialetto), termine che identifica queste strutture, deriva, probabilmente, dal latino trabs, trave, a ricordare che sono costruiti di legno. Alcuni fanno derivare il vocabolo dal “trabiccolo”, l’attrezzo che nei frantoi era usato per spremere le olive per ricavare l’olio; questo perché sui trabocchi si tira su la rete con un argano ligneo simile all’attrezzo già ricordato.

Appoggiati alla roccia, simili a primitive palafitte protese verso il mare, questi «ragni colossali» sono stati descritti in maniera poetica dal più famoso cantore d’Abruzzo, Gabriele D’Annunzio. Nel suo Trionfo della morte, scritto durante il suo soggiorno in loco con Barbara Leoni, sua amante e musa ispiratrice, così li descriveva: «La grande macchina pescatoria composta di tronchi intrecciati, di assi e di gomene biancheggiava simile allo scheletro colossale di un anfibio antidiluviano. pareva vivere di una vita propria, avere un’aria e un’effigie di corpo animato. Il legno esposto per anni ed anni al sole, alla pioggia, alla raffica mostrava la sua fibra… si sfaldava, si consumava, si faceva candido come una tibia o lucido come l’argento o grigiastro come la selce… acquistava un’impronta distinta come quella d’una persona su cui la vecchiaia e la sofferenza avessero compiuto la loro opera crudele».

 

La bilancia Malatesta, l’ultima a sparire

 

UN PO’ DI STORIA

 

Gli studi sui trabocchi abruzzesi sono diversi ma nessuno è riuscito a datare la loro origine. C’è chi li fa risalire ai Fenici ma la prima documentazione risale al sec. XIII: Padre Stefano Tiraboschi, nel manoscritto Vita Sanctissimi Petri Celestini, conservato alla Biblioteca Marciana di Venezia, scrive del soggiorno (dal 1240 al 1243) del futuro Papa Celestino V nel Monastero di San Giovanni in Venere, e riferisce che Pietro da Morrone contemplava dal Colle Belvedere il mare «punteggiato dai trabocchi». Il Tiraboschi riporta la testimonianza del monaco: «La grande distesa del mare mi sembrò meravigliosa, come quando, da bambino, accompagnavo i parenti ai pascoli bassi, verso la marina di Vasto. Ma ora, più che il mare calmo che luccicava sotto il sole della tarda mattina, punteggiato dai trabocchi posti come vedette verso il confine del cielo, mi colpiva la grande Badìa. Era la cosa più bella che avessi mai visto».

Studiosi delle tradizioni locali inquadrano in epoche più recenti la nascita dei trabocchi. Pietro Cupido, “memoria storica della Costa del trabocchi”, recentemente scomparso, ha raccontato, basandosi su fonti orali, di un evento calamitoso (un terremoto seguito da un maremoto) che, nel 1627, causò in zona diverse migliaia di morti. Il ripopolamento del territorio sarebbe avvenuto con la migrazione di famiglie francesi provenienti dal Foggiano; i trabocchi sarebbero “nati” quindi nel sec. XVII, per la necessità di «queste comunità, insediatesi tra San Vito Chietino [il «paese delle ginestre» di D’Annunzio, NdA] e Rocca San Giovanni intorno al 1630» di procacciarsi cibo dal mare, pescando senza spingersi al largo, e legarsi troppo alle condizioni meteorologiche e del mare.

 

La bilancia Fiore (spiegazione nel testo)

 

 

LA COSTRUZIONE

 

Il trabocco è un edificio dall’aspetto fragile e disordinato ma, in realtà, ben ancorato al substrato roccioso della costa, realizzato con legno di pino d’Aleppo, una resinosa tipica delle zone costiere del medio Adriatico, resistente all’aria marina ricca di salsedine e ai venti di maestrale che battono la costa con forti raffiche. Più di recente sono stati usati anche tronchi di robinia (un legno pressoché immarcescibile) e di abete, anch’esso resistente ai danni del tempo.

Si tratta, essenzialmente, di una “terrazza” allungata sul mare sulla quale è costruito il casotto di pesca; la piattaforma di assi di legno è assicurata alla base rocciosa da tronchi di grosse dimensioni e da cavi d’acciaio (le “gomène” dannunziane). Il collegamento con la terraferma è assicurato da una lunga passerella di tavole, munita di passamani. Dalla struttura si protraggono lunghi bracci (le “antenne”) che sostengono una grande rete da pesca (la “bilancia”); quest’ultima è dotata di un sistema di sollevamento (un argano) che permette di sollevarla a tempo debito e di intercettare i branchi di pesci che nuotano tra le rocce o si lasciano trascinare dalle correnti. Proprio per sfruttare questa caratteristica, le antenne che sostengono la rete da pesca, a maglie strette e di grosse dimensioni, sono disposte trasversalmente rispetto alla linea di costa: si sporgono, cioè, verso il mare aperto, per poter calare la rete a profondità ragguardevoli (fino a 4 m circa).

 

Le bilance Bruni e Sciocchetti. Sullo sfondo, le vele triangolari delle lancette sambenedettesi

 

COME SI PESCA SUI TRABOCCHI

 

Il sistema di pesca assomiglia a quello, antico, dei pescatori che, alla foce dei fiumi che sfociano nell’Adriatico, gettavano la rete da lancio (il cosiddetto “rezzaglio”) con gesti sapienti, per intercettare i branchi di cefali. La tecnica è una “pesca a vista” che sequestra i pesci che si spostano lungo la costa; naturalmente, servono esperienza e impegno: il traboccante (l’operatore si chiama così) deve sapere quando è il momento giusto di calare la rete che va ritirata più o meno rapidamente (a seconda delle condizioni del mare). Di solito, la pesca viene effettuata da diversi addetti perché le operazioni da portare a termine sono diverse: avvistare il branco, manovrare la rete (calarla e ritirarla, il più rapidamente possibile), recuperare il pesce pescato.

 

Nella foto d’epoca (anni ’20), la prima bilancia di San Benedetto, la “velange Valentinetti”, al pennello che diventerà Molo Sud

 

I TIPI DI TRABOCCO

 

Sono due: i trabocchi di scoglio, concentrati nel tratto di costa ortonese fino a Vasto (i più “famosi” sono sette, v. immagine allegata all’articolo) e i trabocchi di molo, presenti nel porto-canale di Pescara, a San Vito Chietino e a Vasto. Proprio a quest’ultima tipologia appartengono (o meglio, appartenevano) quelli piceni, meglio conosciuti come “bilance”.

 

Una foto da drone della bilancia, la rete da pesca

 

LE BILANCE SAMBENEDETTESI

 

Le macchine da pesca sono presenti su tutta la costa marchigiana, da Gabicce fino all’estremo sud della regione e oltre: a Martinsicuro, popoloso centro sulla riva destra (orografica) del Tronto, la pesca “a bilancia” è stata effettuata fino al 2013 con circa una ventina di strutture spontanee, sul molo nord. A San Benedetto del Tronto c’erano li velangie, come ci racconta lo storico Giuseppe Merlini, in un lungo e documentato articolo sul numero di maggio del 2015 del Bollettino Ufficiale Municipale della cittadina rivierasca.

Le bilance sono state un elemento caratteristico del porto sambenedettese fino agli anni ’70 del secolo scorso; erano costruzioni “fai da te”, alzate con materiale di recupero. Come ricorda Merlini, «qui non si sentì l’esigenza di costruire palafitte per questo genere di pesca di “fortuna”, un po’ per la mancanza di insenature, per la “spiaggia bassa” e per la mancanza di un porto dove poterle ancorare, un po’ perché, fatta eccezione per i pochi addetti alla “sciabica”, i sambenedettesi preferivano spingersi al largo, utilizzando le proprie barche, per mettere a frutto le loro capacità marinaresche, lasciando perdere ciò che poteva sembrare un passatempo o un mezzo di sussistenza estremo».

 

Un “traboccante” aziona l’argano che cala (e risale) la rete

 

All’inizio del Novecento furono costruiti i “pennelli” (1908-12 il settentrionale; 1919 quello meridionale), dai quali sarebbe nato il porto. Risale al 1921 la costruzione della prima bilancia al molo sud, grazie all’abruzzese Valentinetti, nativo di Ortona, sull’attuale Costa dei trabocchi. Dieci anni dopo furono innalzate altre due bilance (Bruni, a sx del molo, e Sciocchetti, a dx, al posto della prima). La forma definitiva del porto si ebbe nel Secondo Dopoguerra (anni ’50); a quest’epoca risale la costruzione della bilancia conosciuta come la bilancia Fiore (dal nome del proprietario, di cognome Spina), la costruzione più legata alla storia della città: era «Issata al di sopra di quattro traverse ferroviarie di recupero e di altro materiale (che, seppur precario, così come gli altri manufatti che la precedettero, ne garantiva la semplicità e la funzionalità), ogni anno doveva essere rinforzata e restaurata a causa dell’azione corrosiva del mare […] era dotata di un volano a mano per immergere e ritirare la rete, che pescava esclusivamente per consumo familiare, e disponeva anche di un chioschetto, con rivendita di bibite per quanti volessero trovare ristoro nelle “passeggiate in mare aperto”». Lasciata in stato di abbandono, rovinò e fu smantellata.

L’ultima velangia sambenedettese è del 1967, la bilancia Malatesta, motorizzata e con servizio di bar-ristorante. Fu distrutta da un incendio e, successivamente, danneggiata dallo scoppio di una bombola di gas. Fu smantellata nel 1986, per la Legge Galasso che, per ragioni di tutela ambientale, poneva una serie di gravi restrizioni alla costruzione di manufatti del genere.

 

Al trabocco si arriva percorrendo un’esile passerella di tavole di legno

 

CONCLUSIONI

 

La Costa dei Trabocchi (abruzzese) è, oggi, un forte attrattore turistico, grazie anche a leggi regionali che hanno permesso il restauro e la ricostruzione di alcuni manufatti distrutti o danneggiati dalle mareggiate. Queste costruzioni in equilibrio sulle rocce, sospese tra cielo e mare, sono la testimonianza del rapporto fecondo tra Uomo e Natura e sono da considerare un patrimonio di cultura, nato da un’esperienza forse millenaria.

 

Uno dei trabocchi trasformati in ristorante

 

Uno dei trabocchi trasformati in ristorante

 

I pali intrecciati e strallati di un trabocco

 

Quasi un grafismo: la luce dell’alba rivela la struttura di un trabocco

 

L’Abbazia di San Giovanni in Venere

 

Un tratto della Costa dei trabocchi, ben visibile, a sinistra, la massicciata della ferrovia dismessa

 

 

SE VI SIETE PERSI QUALCHE REPORTAGE DI GABRIELE VECCHIONI…..

 

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